giovedì 29 maggio 2014

Il lusso del fallimento

17 anni fa. In una calda sera del 29 maggio 1997, un furgone costeggia il Wolf River poco fuori da Memphis. Alla guida c'è Keith Foti, un ragazzo grassoccio e piuttosto antipatico, con un solo grande pregio: essere il rodie, il ragazzo dei caffè tanto per intendersi, di una delle più belle voci bianche di tutti i tempi, Jeff Buckley. In realtà i due sono amici da tempo, ma Jeff, o meglio Scotty, come qualcuno lo chiama ancora, ha preso il volo. "Grace", il suo primo album, è uscito da tre anni, e due di questi il cantante li ha passati in giro per il mondo a suonare un po' ovunque. Per il momento, i suoi locali preferiti restano i bar fumosi e sporchi dell'America rurale, quella terra del sud intrisa di petrolio e opportunità che è il brodo primordiale dove nascono e proliferano i miti moderni dell'occidente. Ma per Jeff anche quel periodo è finito. Ha già vissuto un periodo a New York, per assaporare il gusto degli anni '90 del Village e dei blue jeans chiari e maglietta bianca, tra Beverly Hills 90210 e Friends. Ma anche quel periodo è finito, non senza nostalgia. Un giorno Buckley disse: «C'è stato un momento della mia vita nel quale potevo semplicemente esibirmi in un cafè e fare ciò che mi piaceva fare, suonare musica, imparare esibendomi, esplorare cosa significasse per me. In quella situazione avevo il prezioso e insostituibile lusso del fallimento, del rischio, della resa. Lavoravo duramente per mettere insieme queste cose, questo lavoro. Mi piaceva e mi mancò quando scomparve. Quello che faccio oggi è tentare di recuperarlo».

Il "lusso del fallimento" dice Buckley. Quell'errore concesso agli emergenti, agli autodidatti, quella verginità culturale che è un libro bianco tutto da scrivere. Lui, quel ragazzo di Anaheim, figlio di un cantautore famoso morto pochi anni prima di overdose, li vede già sbiaditi quei ricordi. Sono già lontani, anche se il tempo trascorso è poco, pochissimo. Per questo, per riabbracciare certe radici, quella calda sera del 29 maggio 1997, Jeff sta viaggiando verso uno studio di registrazione di Memphis. Perchè il suo secondo album deve ripartire da lì, dalla riscoperta del fallimento, del rischio e della resa. Il suo falsetto l'ha reso celebre nel mondo in troppo poco tempo, le grandi star lo hanno già notato ed osannato. David Bowie disse che se fosse finito su un'isola deserta, l'unico album che avrebbe voluto con sè era Grace, pensiero condiviso da Robert Plant e Jimmy Page dei Led Zeppelin; Thom Yorke, frontman dei Radiohead, ammise che quando cantava in falsetto si ispirava al giovane talento americano; un mito come Bob Dylan lo definì uno dei migliori cantautori del decennio.

Tutti si sono accorti di lui. Amato dalle donne, ribelle al punto giusto ma con uno spessore sconosciuto anche ai grandi anti-eroi degli anni 90', da Kurt Cobain in poi. E rispetto a loro, Jeff non ha per nulla intenzione di morire. La vita è dalla sua, anche se lo spettro del padre che lo abbandonò quando aveva ancora il naso sporco, continua a perseguitarlo. Ma lui, che con la sua voce sfiora il paradiso, non ha niente da invidiare al passato. Il mondo è come una grande nuvola, e lui etereo, stralunato e sorridente ci saltella sopra come su un tappeto elastico. Dentro ha il grunge e la musica sacra, sonorità indiane e il pop inglese, l'hard rock e il cantautorato. A soli tre anni dall'uscita del suo primo album, Jeff è tutto e niente, e del suo libro bianco sono state scritte ancora pochissime pagine.


Fa caldo, quel 29 maggio 1997, nonostante l'ora avanzata. Il furgone si ferma vicino al Wolf River, un tranquillo affluente del Mississipi River. I due amici, Jeff e Keith, optano per un bagno. Anzi, è solo lui a voler entrare in acqua. Non si spoglia neanche, ci si infila direttamente con indosso stivali jeans e camicia. Lo ha già fatto molte volte il bagno in quel fiume, lo conosce. Ondeggiando sull'acqua dolce si allontana dalla riva fischiettando Whola Lotta Love degli Zeppelin. Poi scompare.

Lo ritroveranno solo un paio di giorni dopo, il corpo gonfio riverso nell'acqua stagnante, impigliato nelle piante giallognole della riva. La droga e l'alcol, assicurano la madre e gli altri, non c'entrano niente. Ma poi in fondo, chissenefrega. Sembra davvero inutile cercare di tenere pulita l'immagine sociale di un ragazzo distante da canoni e stili, di un ricercatore estatico delle emozioni umane, di un cantautore pellegrino che dalle sue incertezze e debolezze, tirava fuori delle ottave impossibili, da sovrapporre a organi, chitarre, batterie, o anche al semplice silenzio. Come era accaduto nel 91' nella nella chiesa di St. Ann di Brooklyn, quando ad un concerto in omaggio di suo padre, a Jeff si era rotta la chitarra, e lui aveva continuato a cantare a cappella, spettrale, diafano, in qualche modo già immortale.

All'epoca si pensò che gli angeli erano dalla sua, considerando il dono di una voce così soffice, pulita, languida. Poi la tragedia lo inserì tra i miti maledetti di quegli anni. Ma lui, che probabilmente non amava le categorie, avrebbe semplicemente detto: There's the moon asking to stay | Long enough for the clouds to fly me away | Well it's my time coming, I'm not afraid, afraid to die.

Buon compleanno, Jeff.

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