lunedì 3 febbraio 2014

Fiabe elettroniche del post-celluloide

C'era una volta, nei lontani e kubrickiani anni 2000, un nucleo informe ed eterogeneo di esseri che pur essendo umani presentavano notevoli differenze rispetto a noi. Sul totale della popolazione (circa 7 miliardi di individui alla fne del 2011) che abitavano esclusivamente l'antico pianeta Terra, questi esseri speciali erano qualche decina di milioni, percentuale in costante calo e che di lì a poco si sarebbe azzerata.
Il nucleo in questione, stando alle ricostruzioni, era dedito ad azioni e prese di posizione assolutamente "bizzarre", in seguito tacciate come pericolose. Ma pur all'interno del nucleo, non tutti erano uguali. Come razze diverse della stessa specie, ogni essere era dissimile dall'altro, ma presentavano tutti un minimo comune denominatore: spendevano le loro brevissime vite a cercare di raccontare sogni.
Certo, il mondo dell'epoca lo permetteva. C'erano sogni di tutti i tipi, da raccontare. Non come oggi. A quel tempo, ancora, resistevano le "modalità di scelta". Non opzioni pre-marcate, come oggi, bensì qualcosa di diverso: una sorta di costruzione mentale, di esercizio neuronale con il quale quell'esiguo nucleo di persone  realizzava i propri desideri sotto forma di un paio di attrezzi speciali: una forma di comunicazione detta "arte" e uno stile di vita detto "indipendenza" o "libero arbitrio".
Cose assurde, già.

Anche se oggi si tende a minimizzare il fenomeno, molti ritengono che all'epoca il mondo fosse pieno di queste speciali forme di vita. Il pianeta brulicava di queste persone non ancora uniformate, standardizzate o timbrate, che spesso (per derivazione) venivano chiamati con l'appellativo di "artisti", per differenziarli da quelli che già si erano incamminati sul binario unico del futuro. Tra loro, gli "artisti", c'era grande varietà. C'era chi preferiva la musica, chi il colore della pittura, chi la "videocamera", chi il "teatro", chi lo sport o la cucina. Tante foci diverse, ma un'unica sorgente. Tutti erano malati allo stesso modo, di un morbo odioso che si insinuava nel cervello e imponeva al soggetto di non avere obblighi, e soprattutto di seguire l'istinto, di trovare nuove modalità di comunicazione. Ecco sì, era quella la cosa più importante, a quanto pare. Comunicare. Comunicare indipendenza e indipendenza nel comunicare. Già in anni pur così arretrati, infatti, si cominciavano a vedere le briglie, quei confini messi al dialogo che oggi sono la norma. Si cominciavano a mettere limiti alle parole, ai caratteri, al volume, alla morale, ma qualcuno ancora resisteva. Se ne aveva la sensazione entrando in qualche locale la sera tardi, o sedendosi su poltrone rosse in un teatro di periferia. Se ne percepiva l'essenza entrando in scuole che, seppur con certi codici, incitavano addirittura a sviluppare e seguire quell'istinto, ad accogliere dentro di sé quel morbo. Se ne aveva riprova tangibile quando ci si rinchiudeva in qualche "sala cinematografica" a vedere qualche film in post-celluloide, cosiddetto "digitale", per differenziarlo da qualcosa di "analogico" che sopravviveva come vestigia di un passato lontano. Lo si capiva se per puro caso ci si imbatteva in uno di quei soggetti, magari in uno in cui l'agente patogeno aveva già raggiunto uno stadio avanzato di sviluppo. Allora si percepiva una sorta di estasi emozionale, uno spirito di incredibile forza e voracità con il quale il soggetto tentava di raggiungere e migliorare la sua peculiare forma di comunicazione. Si spingevano oltre i limiti consentiti dalla morale collettiva per esprimere un concetto e renderlo pubblico.
E ciò che ne scaturiva erano autentici pezzi di universi paralleli, oppure di realtà diverse, distanti, espresse con note, parole o volti fissati attraverso uno schermo.

Di quel coacervo informe, di quel nucleo di persone anormali che tentavano irrimediabilmente di dirci qualcosa, di trasmetterci un qualche strano messaggio, ben poco è rimasto. Ma in chi ancora ricorda qualche storia tramandata da quel periodo, è facile percepire una sorta di curiosità, e pure di nostalgia.
Forse che tra tutti quei sogni, ce n'erano alcuni che valeva la pena tramandare?
Una domanda che ormai appartiene irrimediabilmente al passato...

tratto da "Fiabe elettroniche, vol. 2, Comunicazioni Parallele"
anno 2754

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